Forse per i potenti che affidano
le speranze a mani mercenarie?
O per scrittori presi nella trappola
della gloria mondana e degli agi
del fine-settimana? Non per costoro
l’argonauta femmina
fabbrica il suo sottile guscio vitreo.
Offrendo il suo precario
souvenir di speranza, una superficie
bianco-opaca all’esterno
e di contorni morbidi all’interno,
lucente come il mare, la prudente
artefice lo veglia
giorno e notte; e mangia appena
finché le uova non siano schiuse.
Otto volte sepolta nelle sue
otto braccia, poiché in un certo senso
è anche lei una piovra,
la teca vitrea e cornea della culla
è ben nascosta, ma non stritolata;
se Ercole, addentato
da un granchio fedele all’Idra,
si vide impedito nell’impresa,
le uova vigilate
intensamente, nell’uscire dal guscio,
lo liberano quando sono esse stesse liberate –
nel lasciare le rughe di quel favo,
bianco su bianco, e le fitte pieghe –
simili a quelle di un chitone ionico,
o alle righe nella criniera
di un cavallo del Partenone –
intorno cui le braccia
si erano avvolte come se sapessero
che l’amore è l’unica fortezza
tanto salda da offrire affidamento.