Il dolore è un momento molto lungo.
Non lo si può spartire in stagioni.
Possiamo solo elencarne le varie facce, notarne l’alternarsi.
Per noi anche il tempo non va avanti.
Gira su sé stesso.
Pare muoversi intorno a un centro di dolore.
La raggelante immobilità d’una esistenza, ogni circostanza della quale è regolata secondo un disegno immutabile, così che noi mangiamo e beviamo, ci corichiamo e preghiamo, o almeno c’inginocchiamo per pregare, secondo le inflessibili leggi d’una formula ferrea: questa immobilità che rende ogni spaventoso giorno simile al fratello sin nei più infimi dettagli, pare comunicarsi a quelle forze esterne, la cui vera essenza, la cui vera ragione d’essere, è il mutamento incessante.
Del tempo della semina o del tempo del raccolto, dei mietitori che si chinano sulle spighe o dei vendemmiatori che passano tra i tralci, dell’erba nel frutteto fatta bianca di fiori lacerati o coperta di frutti caduti: di tutto questo, nulla più sappiamo, e nulla possiamo più sapere.
Per noi esiste una sola stagione, la stagione della sofferenza.